BASTA LA PAROLA 1993-12-15
Anni fa in uno spot pubblicitario dicevano “Basta la parola”. Certo, aggiungo io, purché sia quella giusta. Magari un festoso sì quando chiedi speranzosa un regalo, o un deciso no, quando con titubanza chiedi se devi pagare ulteriori tasse. Utopie.
Potenza delle parole, anche se brevi! Io penso che a questo riguardo la gente oggi si divida in due grandi categorie: quelli che “sanno” parlare: esempi lampanti i giudici, gli avvocati, gli scrittori; ma anche i comici e soprattutto, in questa società dei consumi, i pubblicitari; gente insomma che lavora “con” la parola e “sulla” parola, talvolta distorcendone il significato a seconda dei propri scopi o addirittura modificandola o storpiandola per lo stesso motivo. E quelli “che subiscono”, condizionati dai media, dalle mode, dall’evoluzione stessa del linguaggio comune, ma che non ne capiscono niente, o quasi.
Viene cambiato, per sintetizzarlo, anche il linguaggio scritto sostituendo alle parole dei simboli, per lo più segni matematici. Così le mie ragazze mi lasciano sul tavolo bigliettini di questo tipo: “Se comperi degli ananas x la nonna prendine di + x’ piacciono anche a noi”. Se fosse per abbattere le frontiere, anche linguistiche, ben vengano, per ora però sono solo sintomi della fretta e della frenesia del nostro tempo.
Non è detto comunque che una semplice casalinga o uno studentello non sappiano parlare in maniera appropriata, e di contro, i media ti propinino certi strafalcioni da far inorridire il più misero dei linguisti. In questi ultimi giorni ho sentito usare per radio da un giovane “dee jay” il nome proprio di luogo “America” come un aggettivo: “Che ragazza! è davvero america!” e anche: “Che disco! questo sì che è america!” anche se canzone, cantante e genere musicale erano spudoratamente italiani. Quello senz’altro, dato anche il resto dei commenti, voleva fare dei complimenti, ma io, pensando al gusto degli statunitensi, che definirei decisamente “kitsch”, non riesco proprio a considerarli emblematici di una dichiarazione complimentosa.
Pensando a tutto ciò mi sono venuti in mente altri piccoli esempi che calzano a pennello su l’uso improprio di certe parole (anche se non ho mai visto in nessun negozio delle calzine speciali per pennelli). Il primo risale al tempo della scuola quando un amico, all’ingresso in aula di un comune compagno dall’aria alquanto malconcia gli disse: “Accidenti, non hai dormito stanotte? hai certe ovaie sotto gli occhi!” Il nostro compagno, forse davvero alquanto assonnato, non ha afferrato lo scambio di parole ma io ho veramente trattenuto a stento una risata, pensando a un ragazzo con le ovaie bluastre sotto gli occhi e a una ragazza col mal di pancia per le occhiaie gonfie.
La mia fantasia vola troppo velocemente, ma come trattenerla quando una conoscente, una signora con figli ormai grandi che voleva usare un linguaggio giovane, ripeteva di frequente e con molta enfasi: “Ieri mi hanno fatto dannare più del solito e a un certo punto sono proprio andata in kilt! ” E io allora me la vedevo, con la sua corporatura giunonica, danzare leggiadra al suono delle cornamuse in uno svolazzante gonnellino scozzese. Ma naturalmente con un cipiglio altero, visto che era arrabbiata con i suoi ragazzi.
C’è chi vuole usare neologismi senza conoscerne assolutamente il significato, e chi vuol parlare italiano “altolocato”, condendolo con strafalcioni tratti direttamente dal dialetto: “Un chilo di baracoccoli”, ha chiesto una signora tutta truccata, ingioiellata, al nostro fruttivendolo parlando “in cicchera”, come si direbbe a Venezia, italianizzando a modo suo i nostrani baracocoi (albicocche).
E c’è chi, come me, avendo sempre fretta, pure nel parlare, chiede alla farmacista un “antalgesico”, unendo per praticità sia nel dire che nel prendere, un antibiotico con un analgesico. Non sarò dunque io a scagliare la fatidica prima pietra, anche perché certamente deve essere molto pesante.
Dunque… basta la parola! Ma fare molta attenzione nella sua scelta!
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