Menzione d’onore al Concorso Letterario Nazionale “Agape – Natale insieme
Era un posto bellissimo! Le vette delle montagne si stagliavano contro il cielo terso, tanto alte che anche le nuvole passavano più in basso e a guardarle, sembrava quasi ne avessero soggezione. Il sole faceva splendere la roccia e, alla notte, la luna ne delineava i contorni.
Lungo i pendii la fitta vegetazione di conifere dipingeva intense macchie verdi. In estate, quando dopo la pioggia tornava il sole, dalla valle sottostante un fascio di luci con tutti i colori dell’iride spiccavano il balzo verso il cielo e l’arcobaleno si arcuava attraverso i monti con quella bellezza che solo la natura sa creare.
D’inverno poi, quando la neve ammantava tutto di bianco, il paesaggio era tanto bello da fargli sembrare che dentro di sé il cuoricino smettesse per qualche momento di battere.
Era un piccolo abete, cresciuto proprio sul bordo di un costone di roccia. I suoi ramoscelli ancora teneri vibravano con gioia al vento che talvolta sferzava il fianco del monte e si piegavano docilmente sotto il peso della neve e, come in un gioco, ne lasciavano cadere un po’ alla volta, a mano a mano che il sole la scioglieva, fino a riprendere la loro posizione naturale, pronti a ricominciare.
Era ancora giovane, ma guardando gli alti e forti compagni alle sue spalle, pieno di orgoglio pensava: “Da grande sarò come loro! La mia cima sarà tanto alta da poter accarezzare le nuvole, potrò toccare il cielo e forse, se crescerò molto, anche le stelle!”
Ma non c’era fretta, la montagna, l’aria stessa, tutto dava un senso di pace, di stabilità. Sembrava che il tempo non avesse nessuna importanza e non producesse nessun altro effetto se non il cambio delle stagioni. “E naturalmente,” ricordava a sé stesso, “la mia crescita!”
Passò un’altra splendida estate, un altro autunno con i suoi colori. L’aria si fece di giorno in giorno più fredda; i piccoli animali se ne andarono più a valle o si apprestarono a passare un altro periodo di letargo.
E venne l’inverno; cadde la prima leggera spruzzatina di neve e il piccolo abete tornò a gioire pregustando i giochi con la sua bianca amica e le goccioline che sciogliendosi gli avrebbero solleticato la corteccia.
Molto distante, in una pianura dove non nevicava quasi mai, sorgeva una grande città. C’era tanta gente, tanto rumore; il cielo non era mai azzurro, oscurato da una pesante cappa di smog e l’aria era quasi irrespirabile.
I piccoli animali vivevano randagi, impauriti e affamati, o allevati in cattività. Non c’era un angolino di pace. Alla sera, migliaia di luci artificiali sfaldavano il nero velluto della notte.
Com’era tutto diverso! Pure, anche lì era inverno, anzi, mancavano pochi giorni a Natale.
In quel posto orribile la gente sognava, bramava la quiete e la bellezza delle montagne; forse per questo, una volta all’anno, cercava di concretizzare il suo bisogno di quella natura perduta nel cemento portandosi a casa quel pezzetto di sogno chiamato “albero di Natale”.
Su, nei monti, uomini armati di pale e di seghe elettriche ruppero il silenzio portando panico e angoscia sui pendii innevati. Scelsero indiscriminatamente, prendendo spesso proprio gli alberelli più giovani: tagliarono, strapparono, trascinarono.
Il piccolo abete si trovò assieme ad altri cento schiacciato, strapazzato, trasportato dentro un camion sconquassato e maleodorante. Poi fu gettato sul lato di una piazza, dove le luci appese a mezz’aria cercavano di imitare malamente lo splendore delle stelle ormai lontanissime.
Venne a comprarlo un uomo anziano, dai capelli bianchi e il passo lento. Aveva due nipotini bruni accanto a lui; se lo caricò con facilità in spalla e lo portò nella loro casa.
All’alberello avevano reciso abbondantemente le radici, dovettero quindi porlo in un pesante vaso perché si tenesse ritto; poi lo collocarono nel mezzo della stanza e cominciarono a girargli attorno.
Il suo cuoricino era talmente stretto dal dolore e lo sgomento che non riusciva più a capire né cosa gli facevano né cosa volevano da lui. “Dov’è la bianca neve? dove sono i miei cari compagni; le vette, che pensavo mi avrebbero protetto per sempre. Dov’è il sole? le mie amiche stelle?” Se di piangere fosse stato capace, certo in quel momento avrebbe pianto tutte le sue lacrime.
Poi, piano piano, si calmò un poco: “Sono un abete, figlio della natura e dei monti, non perderò la mia dignità!”
E guardandosi attorno si accorse che nella casa c’era finalmente un po’ di quella pace da cui lo avevano strappato. Luci e colori erano certo artificiali, era solo, ma quei due bimbi che, aiutati dal nonno gli trafficavano attorno, sembravano svolazzare e cinguettare come due uccellini.
E quanta gioia nei loro visini! Sgranavano gli occhi dalla meraviglia ogni volta che il vecchio estraeva da una grande scatola lunghi fili d’argento, pupazzetti e palline dai colori sgargianti e iridescenti come il suo amato arcobaleno.
Si tranquillizzò, si raddrizzò, trovò perfino un po’ di piacere nel piegare gli ancora fragili rametti sotto il peso delle decorazioni.
Venne la vigilia di Natale; alla sera, aspettando la mezzanotte, il nonno si accomodò su una grande poltrona e, con i nipotini accoccolati accanto a lui, si mise a leggere a voce alta storielle e favole. E l’alberello ascoltò con loro.
Un “coso”, nell’altro lato della stanza, emetteva suoni dapprincipio solenni e un po’ tristi, poi sempre più gai e allegri e capì che si riferivano tutti a una grande festa. Guardando più giù, vide che avevano messo ai suoi piedi numerosi pacchetti di varia grandezza avvolti con carta dai disegni variopinti e legati con nastri e fiocchi.
Venne altra gente che non aveva mai visto prima e assieme ai bimbi, i loro genitori, i nonni, cominciarono a parlare con molta allegria; si scambiarono baci e auguri, poi aprirono i pacchetti; spesso lo guardavano e sembravano molto felici che lui fosse lì.
Si rallegrò tutto, cercò di stare il più dritto possibile e di tenere bene in vista le palline più belle. Si inorgoglì molto quando capì che una delle canzoni di quel coso era proprio dedicata a lui.
Ma la sua gioia raggiunse davvero il culmine quando il nonno estrasse da una scatolina azzurra una piccola, delicata, lucentissima stellina di vetro che, pur nella sua trasparenza, sembrava racchiudere in sé l’intero firmamento.
Nella stanza si fece uno stupito silenzio. I bimbi guardarono con gli occhi sgranati quella “cosina” brillante, dimenticandosi perfino di chiudere la boccuccia, e il papà, un uomo alto e magro, non fece nessuna fatica a mettere la stellina là, sulla punta dell’alberello, proprio sulla cima più alta.
E fu come se il piccolo abete, chiudendo gli occhi, piangesse di gioia: il suo sogno si era , malgrado tutto, avverato.
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