Premio Letterario Internazionale “San Marco” Fi / Primo Premio
MI PIACE SCRIVERE 1997-2-22

1960
Grammatica, sintassi, analisi; vernacolo e aforismi! Io volevo divertirmi a scrivere non spremermi le meningi con questa difficile grammatica italiana. No, qui l’accento non ci va, qui invece, anche se dal suono non si capisce, sì! E poi chi se li ricorda? e il vocabolario pesa, mi sembra, circa un quintale. Ma non si può mandare tutto all’aria e scrivere un po’ come ci pare? No, eh? (e questo come va scritto?) Maiuscolo, minuscolo, con la parentesi o no? e il punto? e la virgola? Nomi, aggettivi, verbi e avverbi, accenti e accidenti vari.
Però la nostra lingua rispecchia l’animo degli italiani: variato irregolare imprevedibile e diverso in ogni suo caso; e anche variopinto allegro estroverso e forse un po’…
Quando anni fa ho cominciato a scrivere dei racconti, nascondevo i fogli perché nessuno li leggesse. Non era niente di segreto (la mia vita è “monotonia aperta”) niente di importante, eppure li nascondevo, e così bene che poi io stessa dovevo pensarci un po’ per ricordare dov’erano. Molto del malessere che provavo in quel tempo dipendeva dal fatto che “io ero” solo in funzione di altri, il mio “io” comprendeva solo questo, scrivere, dipingere, studiare qualcosa di nuovo, esulava dal mio vivere e se lo facevo, il renderlo pubblico mi metteva a disagio. Niente mi suggeriva di comportarmi così, ma mi sembrava che una moglie-madre-casalinga che scriveva dovesse far ridere. Contribuiva a tutto ciò il fatto che generalmente nei miei scritti mettevo a nudo i miei pensieri e la mia anima e io, di carattere tremendamente timido e introverso, nel mostrarli provavo quasi un senso di pudore.
A un certo punto venne fuori una frase che diceva circa così: “Mi sento come una scatola chiusa! Forse per questo spero che nessuno legga i miei scritti, sarebbe come alzare il coperchio, e temo si possa scoprire che dentro la scatola è vuota!” Risi di me stessa e a sera la feci leggere a mio marito che non rise, tutt’altro, mi incoraggiò a continuare.
Allora pensai di farlo divertendomi davvero; cominciai così a scrivere un po’ su tutto e su tutti: qualcosa di autobiografico, descrizioni della mia famiglia, della mia città; appunti di vita, brevi racconti, piccole poesie. Il tutto spesso molto sciocco, ma non aveva più nessuna importanza, erano diventati pensieri messi su carta, da rileggere e magari riordinare quando sarò vecchia e non avrò più niente da dire.
“Una come te qualcosa da commentare ce l’avrà sempre!” ha dichiarato un giorno mio marito, e non ho capito se era un complimento alla mia facilità di parola o se ha voluto sottolineare come io sia una di quelle donne che trovano sempre e comunque un argomento per chiacchierarci su un’ora. Non ho osato indagare!
Quando ho saputo che all’associazione “Nicola Saba” c’era un corso di scrittura creativa mi sono detta: “Beh! può essere un modo per fare una cosa che mi piace e conoscere altra gente”. Così mi sono ritrovata per un paio d’ore una volta alla settimana, con un affiatato gruppo di persone e assieme abbiamo passato non solo ore piacevoli ma abbiamo seriamente cercato di migliorare questo nostro italiano trascurato dai tempi della scuola. Da allora, almeno per le mie velleità letterarie, non ho più inibizioni e posso ribattere a mio marito che se diventerò vecchia, e se davvero non avrò niente da dire, quel niente lo dirò in maniera appropriata.
Malgrado siano passati alcuni anni, a volte incontro ancora gli stessi problemi iniziali. Picasso diceva: “Se non ho idee e non so cosa dipingere, mi metto a disegnare”. Qualche grande scrittore avrà fatto altrettanto con foglio e penna; io che non valgo neanche un filino di loro… ora non so proprio più cosa scrivere. Uno di cui non ricordo il nome, ha dissertato su decine di pagine su ciò che gli veniva in mente osservando una sua unghia… L’unica cosa che noto è che sulle mie dovrei metterci lo smalto. Oggi ho la mente arida come la mia bocca e le caramelle alla menta con cui mi sto rimpinzando si sciolgono bene in bocca, ma non sciolgono il cervello. Con il gruppo di studio di scrittura abbiamo fatto l’esempio di ciò che si può dire anche solo su una matita; ma sto scrivendo con un pennarello che, bel lungi dall’avere il colore brillante e il caldo contatto del legno, e dal rievocare fantastici boschi di montagna e forzuti taglialegna, è di plastica, nera, fredda e monotona. Al massimo dello sforzo riesco a pensare all’operaio della fabbrica dove l’hanno fatto che conta le penne mettendole sulle loro scatole: un po’ come si vede nei vecchi film muti, o come succede con le pecore per addormentarsi: “Una penna, due penne, tre…” e poi ci si appisola. Ma il sorriso che accennava a spuntar fuori dal foglio si spegne subito al pensiero che oggi è tutto meccanizzato.
Chiudo il blocco, vado a mangiucchiare altre caramelle e rimando a dopo il tutto. Domani però proverò a comprarmi dei cioccolatini.
Comunque continuando puntigliosamente a scrivere qualsiasi sciocchezza mi viene in mente, ho ampliato il mio lessico e mi sono rinfrancata sia nella grammatica che nella sintassi. Pagina dopo pagina ho anche scoperto gli argomenti che mi sono più congeniali (cioè tutti!) sia in prosa che in poesia; cambio completamente genere (ma purtroppo non stile) a seconda dell’umore o semplicemente del tempo che ho a disposizione: storielle o raccontini con un filo conduttore logico e armonioso, se mi siedo tranquilla e penso di poter arrivare alla fine senza interruzioni (almeno questa è la speranza, in realtà è pura utopia!) o un insieme, spesso aggrovigliato, di frasi se scrivo il mio “pezzo” spezzettandolo nel tempo. Il problema si pone poi quando tento di riordinarle!
Oltretutto non scrivo quasi mai direttamente al computer, in genere preferisco carta e penna anche per poter appoggiarmi in un posto qualsiasi della casa (magari in piedi sopra la lavatrice o accanto ai fornelli); scrivo molto in fretta e, devo senz’altro ammetterlo, con una pessima calligrafia, minutissima e spigolosa, tanto che spesso non riesco io stessa a decifrarla. “Chi non capisce la sua scrittura è un asino di natura!” Raglio con finto sdegno e passo oltre.
Mi piacerebbe scrivere sempre cose divertenti e in modo allegro, ma ovviamente non sempre ci riesco, anche perché in genere lo faccio spontaneamente e senza pensarci su troppo, quasi sempre iniziando e non prevedendo assolutamente dove andrò a finire (o facendo l’esatto opposto!) e talvolta prevale il lato malinconico del mio pensiero, anche se cerco (spesso invano) di “condirlo” con toni ironici.
Tutto comunque mi dà la stessa soddisfazione, sia il racconto “casereccio” sia la storiella “stile fantascienza”. Ho scoperto però un vero piacere nel giocare con le “frasi preconfezionate” e le parole. Ogni scritto è ovviamente formato da un insieme di paragrafi, e questi non sono che un susseguirsi di parole, ma il prenderne certe singolarmente, mischiarle, buttarle all’aria e poi distenderle sul foglio nella più completa casualità, mi diverte proprio.
“Ci sono parole belle e parole brutte.” Diceva la buona fata a Cenerentola in un vecchio film, libero rifacimento dell’ineguagliabile favola.
Vero! A prescindere totalmente dal loro significato intrinseco, ci sono parole il cui suono può essere più o meno gradevole di altri. E così diremo che cioccolatino detto con la bocca chiusa a cuore è molto diverso e più simpatico di cioccolata detto a bocca spalancata. A me piacciono: trillo, lillà, Pechino; preferisco il tic al tac, e il din al don.
Se non si pensa al significato, allora si può aggiungere che mamma e papà non sono che l’inizio di un balbettio; precipitandosi, lapsus, conchiglia, scorribanda, sono labirinti, spirali, intoppi dove la voce si perde o inciampa; che farfalla, birilli e salmonella sembrano nomi di cose carine; che bolla, tetto, sbuffo sembrano allegri scoppiettii e sdrucciolo il nome di uno dei sette nani. Il mio nome invece, non mi piace. Mi suonano meglio Anna, Lucy, Mimì o… Ardelia, che trovo adatto per un bel fiore giallo.
Le parole in fondo sono suoni che noi abbiamo imparato a dominare e applicato a oggetti persone o emozioni ecc. e uniamo assieme per formare frasi e definire così concetti e naturalmente comunicare fra noi. Una stessa parola o frase pronunciate da persone diverse possono cambiare di significato, così una poesia banale letta in fretta o in maniera apatica da una persona qualsiasi, sembra ancora più sciocca, decantata da un “fine dicitore”, può sembrare quasi arte. Proprio come la musica, no? Un motivo strimpellato su una pianola per bambini può essere solo noioso, suonato magistralmente su un pianoforte a coda, risultare una grande opera.
Ma tornando alle singole parole, che ne dite di: brillio, spicchio, pompon? Alcune mi sono solo più simpatiche scrivendo; mi sono accorta che ripeterei continuamente: proprio, tutto e…e, accentata o meno, ne metterei a iosa (anche questa mi piace) assieme a tutti gli avverbi che finiscono in –mente, e in genere le parole brevi accentate.
E ora prendiamo in considerazione alcune diversità di suono delle stesse parole nelle diversità di lingue che siamo andati a inventare tanto per comprenderci meno. Così, con un paio di esempi diremo che se in Guglielmo la lingua ti si incastra tra i denti, la sua versione inglese di William è notevolmente più scorrevole, e se in margherita inciampi su quell’orribile “ghe”, daisy è decisamente più carino.
Anni fa in uno spot pubblicitario dicevano “Basta la parola”. Certo, aggiungo io, purché sia quella giusta. Magari un festoso sì quando chiedi speranzosa un regalo, o un deciso no, quando con titubanza chiedi se devi pagare ulteriori tasse. Utopie.
Potenza delle parole, anche se brevi! Io penso che a questo riguardo la gente oggi si divida in due grandi categorie: quelli che “sanno” parlare: esempi lampanti i giudici, gli avvocati, gli scrittori; ma anche i comici e soprattutto, in questa società dei consumi, i pubblicitari; gente insomma che lavora “con” la parola e “sulla” parola, talvolta distorcendone il significato a seconda dei propri scopi o addirittura modificandola o storpiandola per lo stesso motivo. E quelli “che subiscono”, condizionati dai media, dalle mode, dall’evoluzione stessa del linguaggio comune, ma che non ne capiscono niente, o quasi.
Viene cambiato, per sintetizzarlo, anche il linguaggio scritto sostituendo alle parole dei simboli, per lo più segni matematici. Così le mie ragazze mi lasciano sul tavolo bigliettini di questo tipo: “Se comperi degli ananas x la nonna prendine di + x’ piacciono anche a noi”. Se fosse per abbattere le frontiere, anche linguistiche, ben vengano, per ora però sono solo sintomi della fretta e della frenesia del nostro tempo.
Non è detto comunque che una semplice casalinga o uno studentello non sappiano parlare in maniera appropriata, e di contro, i media ti propinino certi strafalcioni da far inorridire il più misero dei linguisti. In questi ultimi giorni ho sentito usare per radio da un giovane “dee jay” il nome proprio di luogo “America” come un aggettivo: “Che ragazza! è davvero america!” e anche: “Che disco! questo sì che è america!” anche se canzone, cantante e genere musicale erano spudoratamente italiani. Quello senz’altro, dato anche il resto dei commenti, voleva fare dei complimenti, ma io, pensando al gusto degli statunitensi, che definirei decisamente “kitsch”, non riesco proprio a considerarli emblematici di una dichiarazione complimentosa.
Pensando a tutto ciò mi sono venuti in mente altri piccoli esempi che calzano a pennello su l’uso improprio di certe parole (anche se non ho mai visto in nessun negozio delle calzine speciali per pennelli). Il primo risale al tempo della scuola quando un amico, all’ingresso in aula di un comune compagno dall’aria alquanto malconcia gli disse: “Accidenti, non hai dormito stanotte? hai certe ovaie sotto gli occhi!” Il nostro compagno, forse davvero alquanto assonnato, non ha afferrato lo scambio di parole ma io ho veramente trattenuto a stento una risata, pensando a un ragazzo con le ovaie bluastre sotto gli occhi e a una ragazza col mal di pancia per le occhiaie gonfie.
La mia fantasia vola troppo velocemente, ma come trattenerla quando una conoscente, una signora con figli ormai grandi che voleva usare un linguaggio giovane, ripeteva di frequente e con molta enfasi: “Ieri mi hanno fatto dannare più del solito e a un certo punto sono proprio andata in kilt! ” E io allora me la vedevo, con la sua corporatura giunonica, danzare leggiadra al suono delle cornamuse in uno svolazzante gonnellino scozzese. Ma naturalmente con un cipiglio altero, visto che era arrabbiata con i suoi ragazzi.
C’è chi vuole usare neologismi senza conoscerne assolutamente il significato, e chi vuol parlare italiano “altolocato”, condendolo con strafalcioni tratti direttamente dal dialetto: “Un chilo di baracoccoli”, ha chiesto una signora tutta truccata, ingioiellata, al nostro fruttivendolo parlando “in cicchera”, come si direbbe a Venezia, italianizzando a modo suo i nostrani baracocoi (albicocche).
E c’è chi, come me, avendo sempre fretta, pure nel parlare, chiede alla farmacista un “antalgesico”, unendo per praticità sia nel dire che nel prendere, un antibiotico con un analgesico. Non sarò dunque io a scagliare la fatidica prima pietra, anche perché certamente deve essere molto pesante.
Dunque… basta la parola! Ma fare molta attenzione nella sua scelta!
Non pare anche a voi? Forse no, ma poco importa, anche su questo argomento l’interessante e il piacevole è molto soggettivo. Naturalmente è proprio così… ma …e… se…
Comunque sarà senz’altro capitato anche a voi distendervi sul letto e non riuscire ad addormentarvi subito, e fissando il niente vuoto e incolore dell’insonnia, dare via libera ai pensieri più strampalati e assurdi che mai vi verrebbero in mente se foste pienamente coscienti della vostra volontà.
Ieri… o meglio, stanotte (dato che erano le ore cosiddette “piccole”) ho dissertato in silenzio, parlando a me stessa per chissà quanto tempo, sulla sibilante lettera “S”.
SCONFORTO!
Perché specificatamente su questa? Forse perché è l’iniziale del mio nome ma accidenti, chissà come, mi sono saltati in mente un sacco di aggettivi nomi e verbi che iniziano con la “S” con un senso brutto o negativo.
SGRADEVOLE!
Vocaboli come spavento, stupro, sparo, sputo; svogliatezza, sfinimento. Senilità. Solitudine. Scomparsa.
“S”. Una piccola serpe che sfregia la carta sfigurandone il superficiale lindore. A molte persone fanno schifo i serpenti.
STUPIDI!
A me no! Ho visto una volta un piccolo zoo ambulante contenente solo rettili provenienti da varie parti del mondo e sono rimasta piacevolmente stupefatta dalla bellezza di questi animali; gli smaglianti colori della pelle, le svariate sfumature, gli splendidi disegni simili a moderni mosaici, la loro rigorosa simmetria geometria; veri capolavori della natura. Perché dunque, se sono così belli, sono spesso presi a simbolo di cose brutte? Dalla tentazione di Satana, incarnato nelle sue spoglie, al povero Adamo, primo uomo, fino a noi, con schifose similitudini.
SPREGEVOLE!
Si sono coniate frasi entrate nel parlare comune sul tipo: “Essere viscido come un serpente” (anche se personalmente lo troverei più appropriato ad esempio per un pesce, che ti sguscia sempre dalle mani); o: “Strisciante come una serpe”. E le lumache? non strisciano forse anche loro, e per di più sulla loro bava “sicuramente” viscida? E poi le subdole allusioni alle squame e alla lingua biforcuta!
SQUALLIDO!
E come uno spiritello maligno una frase è andata sinistramente formandosi nella mia mente, squassando e sovraccaricando di tensione i miei nervi già scossi.
“Spietatamente scivolare su sostanze sdrucciolevoli sparse su squamose superfici e strapparsi da sgradevoli squilibri per poi sparire in spelonche sudice sublimando sogni squallidi.”
SGANGHERATO!
Con un briciolo di coscienza ancora desto ho cercato qualcosa di positivo, ma non mi è sovvenuto nient’altro che “semplicità” e “simpatia”.
SCONSOLANTE!
Ce ne saranno senza dubbio molti altri (sicuro!) ma ora che sono nel pieno possesso della mia mente (spero!) non sto a spremermi il cervello con queste scemenze e mi limito a scrivere ciò che ho pensato.
SERENITA’!
Sto però stranamente sognando pur con la mente sveglia e gli occhi spalancati.
STRAORDINARIO!
“Solare, sublime sfarfallante sensazione di speranzosi spiccioli di sapienza, sicuramente salvati da sempiterna stupidità.”
SI’!
Nota per il sign. correttore di sciocchi scritti
“Sottolinei o stracci, sempre con spietatezza e senza sorvolare, gli strafalcioni stravolti e senza senso.”
Saluto sorridendo con sincera simpatia
Stefania
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