Putrescenza

PUTRESCIENZA   1995-04-16

Ripensandoci tempo dopo, si rese conto dell’assurdità di quel pensiero, pure, davanti a quella mostruosità, l’unica cosa che gli venne in mente fu: “Ma come fa a stare in piedi?”

Era una giornata splendida, di quelle che si vedono nei film o nei sogni, tutto sole e brezza marina; le strade percorse da bella gente, i negozi con le vetrine rigurgitanti di ricche mercanzie di ogni tipo. Passeggiava piano assaporando ogni attimo e ogni passo.
Non tanto distante, in uno stretto vicolo di periferia ingombro di immondizia dove la luce del sole si vedeva appena, qualcuno camminava con uno stato d’animo esattamente opposto della persona precedente. Il suo essere era saturo di dolore, angoscia, rabbia, rancore contro tutto e tutti. Aveva perso anche l’ultima speranza di poter cambiare quella infame esistenza.
Era stato uno studioso, un giorno, un uomo importante e stimato. Ma era un egocentrico, era inebriato di sé stesso; amava il lusso e la ricchezza; la smania di successo equivaleva solo alla sua sete di potere. La sua avida scalata negli ambienti sociali, i sui mezzi spregiudicati usati per ottenere ciò che voleva, uniti alla sua dissolutezza e allo sperpero con cui usava i suoi beni economici, lo avevano portato su una china pericolosa oltre la quale non c’era nient’altro che una rovinosa caduta verso il basso. Una cosa dopo l’altra, tutto era andato a catafascio. A uno a uno aveva perso gli amici, si era dato al bere, aveva perfino provato le droghe pesanti. Per rimediare alle sue ormai catastrofiche condizioni finanziarie aveva provato il gioco d’azzardo, che non lo aveva certo aiutato, anzi, un po’ alla volta si era letteralmente dissanguato.
Ora, perseguitato dagli strozzini e dai creditori, convinto, e non erroneamente, che la sua vita valesse ormai meno che niente, camminava lungo il vicolo per recarsi in quel tugurio che per ultimo aveva ospitato il suo laboratorio chimico. Un’ultima analisi, un’altra prova, ancora qualche minuto e avrebbe messo fine a tutto; alla sofferenza, alla miseria, alla sconfitta.
Quando tempo addietro presentò all’Accademia Delle Scienze la sua scoperta, alcuni lo derisero, altri lo insultarono dichiarando i suoi studi “orribili attentati alla natura”. Aveva scoperto una sostanza che poteva disintegrare le cellule umane e ridurle a un ammasso informe e inorganico. Continuando gli studi e orientandoli verso scopi medici forse, anzi, quasi certamente, sarebbe stato un’ottima cosa, ma il guadagno sarebbe stato insufficiente rispetto le sue aspettative e comunque molto lontano nel tempo. La sua avidità e la sua ambizione lo portavano a volere tutto e subito!
Non si era arreso e aveva proseguito studi; pensava di poterla eventualmente vendere come arma chimica al maggior offerente (non aveva scrupoli né legami politici o religiosi); a lui bastava trarne il massimo profitto possibile, la popolarità e il prestigio ormai non gli importavano più.
Gli avevano ordinato di distruggere tutto immediatamente ma lui non lo aveva fatto, tutt’altro, aveva proseguito gli esperimenti rendendo la sostanza alquanto virulenta, bastavano ora poche gocce a contatto con la pelle per distruggere un uomo in pochi minuti. Ancora un poco e ora avrebbe completato la sua opera.
Arrivò davanti a una porta fatiscente. Non serviva chiudere a chiave, bastava una spallata per aprire; ma tanto, dentro quella spelonca non c’era nient’altro che qualche boccetta e dei vecchi vasi di vetro corroso dagli acidi. E tanto, tanto sporco ovunque. Mescolò delle sostanze, ci aggiunse del liquido, lo esaminò al microscopio che aveva preso a nolo con gli ultimi spiccioli rimasti. Infine, ritenne che tutto fosse pronto. Chiuse gli occhi per un momento poi, senza esitare e senza rimpianti, versò tutto il preparato sul suo braccio scoperto.
Non sentì niente, vide la sua pelle diventare scura, disgregarsi, la carne putrefarsi; osservò il tutto come se stesse guardando dal di fuori del suo corpo. Guardò con assoluto distacco le mani e le braccia letteralmente cadere a pezzi. Ebbe ancora un attimo di lucidità che consumò pensando senza stupirsi che non provava nessuna sensazione fisica. Poi la vista gli si annebbiò, il cervello smise di funzionare e cadde a terra già morto. Qualche minuto ancora e ciò che era stato un uomo non era altro che una pozzanghera di melma scura.
Scese il silenzio rotto solo dallo zampettare e dallo squittio dei topi che da sempre gironzolavano indisturbati fra i locali. Un paio di essi, enormi, passarono accanto alla pozza, la tastarono con le zampette, l’annusarono; schifati dal puzzo nauseabondo si ritrassero con uno scatto… ma fu comunque troppo tardi, erano bastate poche molecole ancora attive di quella materia per contaminarli in maniera irreversibile.
Come l’uomo, anche gli animali non provavano nessuna sensazione fisica di dolore. Continuarono il loro girovagare nella perenne ricerca di cibo finché non caddero a terra semi liquefatti. Altri sorci si avvicinarono, li calpestarono, si portarono a morire più distante. Alcuni, raggiunsero l’esterno della casa.
Fu la volta di un cane rognoso. Gli occhi sembrarono spalancarsi di colpo per effetto del dissolversi delle palpebre. Occhi che vedevano ormai solo nell’interno stesso dell’orrore. La brezza che a stento riusciva a intrufolarsi fra quei vicoli stretti, per un momento aumentò la sua potenza sollevando dal corpo dell’animale a terra le infinitesimali molecole in cui si stava scomponendo e che per qualche secondo galleggiarono sopra di lui come una nebbiolina leggera, un fumo fatuo che dava alla scena un aspetto ancor più irreale.
Poi toccò a un gatto, che prima di stramazzare al suolo andò a strofinarsi contro le gambe di un barbone che frugava fra mucchi di spazzatura, quasi a volersi togliere di dosso quei brandelli di pelle che andavano a staccarglisi dal corpo.
L’uomo viveva ormai da anni ai margini della società barattando con un po’ di cibo o di vino le cose che trovava rovistando fra i rifiuti, ma non era tanto vecchio come di primo acchito poteva apparire. I capelli grigi e unti, la barba non rasata da chissà quanto, i vestiti a brandelli, tutto in lui diceva sudiciume e miseria. Pure era ancora relativamente giovane e il suo cervello, non ancora ottenebrato dall’alcol fece sì che si accorgesse di quanto stava accadendo, anche se naturalmente non ne afferrò né la causa né la gravità.
Aveva visto un cane accovacciato a fianco di una cassa di legno, ora in quel posto c’erano pezzi di ossa scuri e brandelli di carne putrefatta e sembrava che il tutto continuasse a sciogliersi. C’erano dei topi, alcuni arrancavano per poi stramazzare ed era chiaro che in loro era iniziato lo stesso processo degenerativo di quella cosa che con ogni probabilità era stato un cane.
Poi si accorse del gatto a terra lì a fianco. Si ricordò con raccapriccio dello strofinio leggero contro la sua gamba sentito poc’anzi e con uno scatto insospettabile per quel corpo di rottame, balzò all’indietro. Freneticamente cercò con un cencio trovato lì appresso di pulirsi i calzoni da quel “qualcosa” di terribile che faceva morire in quel modo e che temeva lo avesse contaminato. E vide con orrore la sua pelle scurirsi, sfaldarsi. Terrorizzato prese a correre lungo il vicolo, girò in un altro, un altro ancora; sbucò in una strada più larga dove un gruppo di suoi pari seduti accanto al muro si passavano l’un l’altro una bottiglia semi vuota. Con un rantolo chiese aiuto, ma anche se qualcuno avesse potuto decifrare i suoni gorgoglianti emessi da quella gola ormai quasi otturata dal liquame della sua stessa carne, nessuno, avrebbe potuto far più niente.
Il processo di contaminazione degli odiati abitanti di quella città era ormai cominciato.

Nel suo vagare senza meta beandosi della splendida giornata e della possibilità di godersi qualche ora di meritato riposo, l’uomo passo passo si era portato verso la periferia della città. Le strade si stavano facendo via via più strette, ma i colori, la vita che vi fervevano oggi erano per lui motivo di gioia. Sbucò in una strada poco frequentata, con alte case ai lati dall’aspetto alquanto misero. Non ci mise molto a decidere di girare sui tacchi e ritornare sui suoi passi quando… La “cosa” gli stava davanti e lo fissava con le orbite degli occhi ormai vuote.
Era senz’altro ciò che restava di un essere umano (ancora per pochi minuti forse) ma per ora era eretta, era lì e lo fissava, ma lui, pietrificato davanti tanto orrore, scioccamente si chiese solo come diavolo facesse a stare in piedi. Si rese conto che stava sempre più diventando una massa informe con cumuli più consistenti date dai pezzi di ossa e carne non ancora discioltisi e dai quali un denso liquame scendeva appiccicandosi vischioso a ogni protuberanza fino a sgocciolare sulla strada formando una scia di grosse chiazze di melma scura che l’essere lasciava dietro di sé.
L’uomo si scosse dal suo intorpidimento, riuscì a fare un passo indietro, un altro, andando a ritroso senza staccare lo sguardo da quell’orrido essere. E questi finalmente si fermò, si disciolse in un’unica pozza, cessò di esistere come essere vivente.
Ripreso appieno il possesso dei suoi sensi e della sua mente, l’uomo si rese conto del bailamme che c’era lì attorno. Sirene ululanti, agenti di polizia, militari, automezzi di ogni tipo. La zona fu circondata, i pochi superstiti trovati furono per sicurezza isolati e posti in quarantena in speciali edifici creati anni prima quando si temevano le bombe radioattive. In realtà, bastò un rapido esame per sapere che l’avevano scampata, il fatto stesso che dopo una decina di minuti non si erano ancora liquefatti dimostrava che non erano stati contagiati.
Gli spiegarono tutto più tardi: lo scienziato, non essendo riuscito nella sua primaria impresa, reso ormai totalmente pazzo dall’odio e dall’alcol, nella sua smaniosa fretta di finire la sua opera, non aveva tenuto conto di un fattore essenziale: dopo pochi minuti, l’essere contaminato si trasformava in una sostanza totalmente inorganica e a ogni passaggio il processo degenerativo diventava sempre più veloce; il contagio doveva avvenire quindi entro brevissimo tempo, e alle autorità competenti accorse prontamente sul luogo non restò che il compito di recintare la zona con barriere impenetrabili e attendere che gli eventi si esaurissero da soli. Gli animali, cani e gatti randagi e rognosi, scarafaggi e schifosi animali simili, erano già nella quasi totalità morti o in prossimità di esserlo, e certo senza rimpianto di nessuno, e dopo i primi casi, fu il loro stesso istinto a tenerli lontani.
Quanto ai barboni, nel luogo di degenza per la quarantena, ripuliti e ben nutriti, ma costretti a non ubriacarsi, impossibilitati a girovagare fra i vicoli, vivendo praticamente in clausura, non adattandosi a quella vita uno alla volta morirono tutti d’inedia e di troppa pulizia.

 

Competenze

Postato il

settembre 7, 2017

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