CAP. 1 L’ABETE
Era un posto bellissimo! Le vette delle montagne si stagliavano contro il cielo terso, tanto alte che anche le nuvole passavano più in basso e a guardarle, sembrava quasi ne avessero soggezione. Il sole faceva splendere la roccia e, alla notte, la luna ne delineava i contorni.
Lungo i pendii la fitta vegetazione di conifere dipingeva intense macchie verdi. In estate, quando dopo la pioggia tornava il sole, dalla valle sottostante un fascio di luci con tutti i colori dell’iride spiccavano il balzo verso il cielo e l’arcobaleno si arcuava attraverso i monti con quella bellezza che solo la natura sa creare.
D’inverno poi, quando la neve ammantava tutto di bianco, il paesaggio era tanto bello da fargli sembrare che dentro di sé il cuoricino smettesse per qualche momento di battere.
Era un piccolo abete, cresciuto proprio sul bordo di un costone di roccia. I suoi ramoscelli ancora teneri vibravano con gioia al vento che talvolta sferzava il fianco del monte e si piegavano docilmente sotto il peso della neve e, come in un gioco, ne lasciavano cadere un po’ alla volta, a mano a mano che il sole la scioglieva, fino a riprendere la loro posizione naturale pronti a ricominciare.
Era ancora giovane, ma guardando gli alti e forti compagni alle sue spalle, pieno di orgoglio pensava: “Da grande sarò come loro! La mia cima sarà tanto alta da poter accarezzare le nuvole, potrò toccare il cielo e forse, se crescerò molto, anche le stelle!”
Ma non c’era fretta, la montagna, l’aria stessa, tutto dava un senso di pace, di stabilità. Sembrava che il tempo non avesse nessuna importanza e non producesse nessun altro effetto se non il cambio delle stagioni. “E naturalmente,” ricordava a sé stesso, “la mia crescita!”
Passò un’altra splendida estate, un altro autunno con i suoi colori. L’aria si fece di giorno in giorno più fredda; i piccoli animali se ne andarono più a valle o si apprestarono a passare un altro periodo di letargo.
E venne l’inverno; cadde la prima leggera spruzzatina di neve e il piccolo abete tornò a gioire pregustando i giochi con la sua bianca amica e le goccioline che sciogliendosi gli avrebbero solleticato la corteccia.
CAP. 2° LA CITTA’
Molto distante, in una pianura dove non nevicava quasi mai, sorgeva una grande città. C’era tanta gente, tanto rumore; il cielo non era mai azzurro, oscurato da una pesante cappa di smog e l’aria era quasi irrespirabile. I piccoli animali vivevano randagi, impauriti e affamati, o allevati in cattività. Non c’era un angolino di pace. Alla sera, migliaia di luci artificiali sfaldavano il nero velluto della notte.
Com’era tutto diverso! Pure, anche lì era inverno, anzi, mancavano pochi giorni a Natale.
In quel posto orribile la gente sognava, bramava, la quiete e la bellezza delle montagne; forse per questo, una volta all’anno, cercava di concretizzare il suo bisogno di quella natura perduta nel cemento portandosi a casa quel pezzetto di sogno chiamato “albero di Natale”.
Su, nei monti, uomini armati di pale e di seghe elettriche ruppero il silenzio portando panico e angoscia sui pendii innevati. Scelsero indiscriminatamente, prendendo spesso proprio gli alberelli più giovani: tagliarono, strapparono, trascinarono.
Il piccolo abete si trovò assieme ad altri cento schiacciato, strapazzato, trasportato dentro un camion sconquassato e maleodorante. Poi fu gettato sul lato di una piazza, dove le luci appese a mezz’aria cercavano di imitare malamente lo splendore delle stelle ormai lontanissime.
Venne a comperarlo un uomo anziano, dai capelli bianchi e il passo lento. Aveva due nipotini bruni accanto a lui; se lo caricò con facilità in spalla e lo portò nella loro casa. All’alberello avevano reciso abbondantemente le radici, dovettero quindi porlo in un pesante vaso perché si tenesse ritto; poi lo collocarono nel mezzo della stanza e cominciarono a girargli attorno.
Il suo cuoricino era talmente stretto dal dolore e lo sgomento che non riusciva più a capire né cosa gli facevano né cosa volevano da lui. “Dov’è la bianca neve? dove sono i miei cari compagni; le vette, che pensavo mi avrebbero protetto per sempre. Dov’è il sole? le mie amiche stelle?” Se di piangere fosse stato capace, certo in quel momento avrebbe pianto tutte le sue lacrime. Poi, piano piano, si calmò un poco: “Sono un abete, figlio della natura e dei monti, non perderò la mia dignità!”
E guardandosi attorno si accorse che nella casa c’era finalmente un po’ di quella pace da cui lo avevano strappato. Luci e colori erano certo artificiali, era solo, ma quei due bimbi che, aiutati dal nonno gli trafficavano attorno, sembravano svolazzare e cinguettare come due uccellini.
E quanta gioia nei loro visini! Sgranavano gli occhi dalla meraviglia ogni volta che il vecchio estraeva da una grande scatola lunghi fili d’argento, pupazzetti e palline dai colori sgargianti e iridescenti come il suo amato arcobaleno. Si tranquillizzò, si raddrizzò, trovò perfino un po’ di piacere nel piegare gli ancora fragili rametti sotto il peso delle decorazioni.
Arrivò la vigilia di Natale; venne altra gente che non aveva mai visto prima e alla sera, aspettando la mezzanotte, il nonno si accomodò su una grande poltrona e, con i nipotini accoccolati accanto a lui, si mise a leggere a voce alta storielle e favole. E l’alberello ascoltò con loro. Un “coso”, nell’altro lato della stanza, emetteva suoni dapprincipio solenni e un po’ tristi, poi sempre più gai e allegri e capì che si riferivano tutti a una grande festa. Guardando più giù, vide che avevano messo ai suoi piedi numerosi pacchetti di varia grandezza avvolti con carta dai disegni variopinti e legati con nastri e fiocchi. I bimbi, i loro genitori, i nonni, cominciarono a parlare con molta allegria; si scambiarono baci e auguri, poi aprirono i pacchetti; spesso lo guardavano e sembravano molto felici che lui fosse lì.
Si rallegrò tutto, cercò di stare il più dritto possibile e di tenere bene in vista le palline più belle. Si inorgoglì molto quando capì che una delle canzoni di quel coso era proprio dedicata a lui.
Ma la sua gioia raggiunse davvero il culmine quando il nonno estrasse da una scatolina azzurra una piccola, delicata, lucentissima stellina di vetro che, pur nella sua trasparenza, sembrava racchiudere in sé l’intero firmamento.
Nella stanza si fece uno stupito silenzio. I bimbi guardarono con gli occhi sgranati quella “cosina” brillante, dimenticandosi perfino di chiudere la boccuccia, e il papà, un uomo alto e magro, non fece nessuna fatica a mettere la stellina là, sulla punta dell’alberello, proprio sulla cima più alta.
E fu come se il piccolo abete, chiudendo gli occhi, piangesse di gioia: il suo sogno si era , malgrado tutto, avverato.
CAP. 3° UN ANNO DOPO
Malgrado il luogo ostile e il tremendo trauma subito nei primi giorni dopo che lo avevano strappato dalle sue montagne, il piccolo abete, grazie alle amorevoli cure di cui era fatto oggetto e la sua grande forza di volontà, sopravvisse al grigio inverno cittadino. Lo avevano messo sul terrazzo e la casa in cui era stato portato era situata un po’ in periferia, così smog e rumori non erano troppo insopportabili.
“Certo è brutto e molto difficile,” si diceva l’alberello, “ma bisogna saper adattarsi se si vuol crescere!”
E venne finalmente la primavera. I moncherini di radici che gli erano rimasti crebbero un po’ e fu per lui più facile nutrirsi; il sole era tiepido e c’era li attiguo un grande giardino pubblico con tanti alberi e aiole che ora cominciavano a ricoprirsi di nuove foglie ed erbetta verde e lui, dalla sua posizione, ne vedeva una buona parte; e si stupì nel constatare che se non c’era troppo rumore attorno, udiva perfino cantare gli uccellini.
Si ricoprì lui stesso di piccoli aghetti verdi e i rametti crebbero un po’. “Ne ero proprio certo! sto crescendo! ci scommetterei!” si diceva, e sapeva bene che avrebbe vinto, perché i due bambini che abitavano in quella casa e lo ammiravano molto, controllavano quasi ogni giorno se si allungava. Sì, era tutto diverso, ma ce la fece!
Anche li le stagioni arrivavano con i loro cambiamenti, anche se non c’era niente di tanto vistoso e soprattutto niente di tanto bello.
E passò l’estate, e ritornò l’inverno.
Attraverso i vetri l’alberello aveva imparato a distinguere e a capire ciò che avveniva dentro la casa e s’accorse così che stava tornando quel periodo che chiamavano “Natale”.
“Bene! bene! che bello!” si disse. Era davvero un alberello di buon carattere e molto adattabile.
Un mattino lo riportarono dentro la stanza e lo rimisero nello stesso posto dell’anno precedente.
Ma questa volta non ebbe nessuna paura, anzi, entusiasta si lasciò addobbare con tanti ninnoli e i nastri argentati, aiutando come poteva, restando cioè molto eretto e tenendo ben su i rametti quest’anno un po’ più lunghi e robusti.
“Che bello! che bello!” diceva, e commentava a uno a uno ogni oggetto: “Questo me lo ricordo! Questo non mi pare! La pallina rossa è un po’ sbiadita, quella gialla mi piace di più! Oh!!! questo deve essere nuovo ed è davvero molto grazioso. Il fiocco invece non mi piace proprio! ma non lo dico a nessuno!” E continuò così fino alla fine.
Ma un pensiero lo preoccupava un po’, l’anno prima il nonno aveva letto ai nipotini delle belle storie ma ora non dava nessun cenno di volerlo fare. “Le avrà lette tutte? non ne conoscerà altre? lo farà domani?”
Ma una sera, mentre si ripeteva queste domande, udì delle vocine: alcuni oggetti posti vicino al caminetto sul lato della stanza parlavano tra loro:
ACCANTO AL CAMINETTO
E’ una storia raccontata accanto al caminetto, una storia narrata in quella dimensione dell’etere non udibile dagli esseri umani. Ognuno la sua.
E’ un grosso ciocco di legna che brucia nel camino a cominciare:
– Ero un albero alto e forte; i miei rami toccavano il cielo e fra le mie foglie cantavano gli uccelli. Sono arrivati i taglialegna, mi hanno abbattuto e fatto a pezzi; e ora eccomi qui, ad ardere assieme ad altra legna e mi ridurrò in cenere!
Accanto a lui, il mollettone per girare le braci continua il lamento:
– Ero amalgamato assieme ad altri minerali nel cuore della terra. Uomini e macchine mi hanno portato alla luce. Poi un artigiano mi ha forgiato facendo di me una piccola opera d’arte. Ora sono buttato in un angolo e usato tanto raramente da far dimenticare a me stesso la mia seppur misera esistenza!
– Di che cosa vi lamentate voi? In un modo o nell’altro siete stati utili almeno per un po’! – A parlare è una graziosissima bambola dal visino paffuto e gli occhioni sgranati. – Mi hanno costruita così bella per piacere a qualche bimba, ma eccomi qua! triste assieme a voi. La bambina alla quale sono stata donata ha aperto la carta in cui ero avvolta e ha sorriso felice. Poi, dopo solo pochi minuti, ecco arrivare una scatola coloratissima e dentro… oh! una meraviglia! una bambola incredibile, col corpo morbido, gli occhi che si chiudono, un meccanismo interno per farla muovere e parlare. Sembrava una bambina vera! così io sono stata subito dimenticata e buttata da parte. E ora sono qui con voi.
E’ infatti messa di traverso sul bordo del caminetto, il vestitino scomposto, i riccioletti che quasi toccano la cenere.
Un’altra vocina, leggera leggera nelle seppur lievissime ali del pensiero delle cose, si fa ora udire tristissima: – Ero un piccolo seme; ho fatto il possibile per crescere in fretta e nel migliore dei modi, sono diventato una bella piantina e ora, per abbellire la casa in questo periodo di festa, mi hanno messo qui! ho tanto caldo e sto soffocando! – I piccoli fiori dal delicato profumo e dal tenue colore sono infatti col capo reclino e l’aria addolorata. Nemmeno le foglioline che con tanta gentilezza cercano di mettersi davanti per proteggerli dal calore possono fare molto. Questa era una piccola creatura vivente, quanto potrà ancora sopportare?
Ma ecco un’altra voce… è umana! Parla forte e in tono sicuro:
– Avanti, sediamoci qui accanto al camino! La legna è ancora accesa e c’è un delizioso calore! Ravviva le braci, ecco la molla! Ma chi ha messo qui vicino la mia piantina? Aspetta, la metto subito sotto l’acqua per rinfrescarla un po’. Oh, che peccato se dopo tante cure si appassisse.
– Prendi cara! ecco la bambola! Non piangere! Era prevedibile, i giocattoli, più complicati sono prima si rompono; questo poi, è durato davvero poco! Prendi tesoro, questa bambola ti darà senz’altro più soddisfazione; non si rompe e puoi inventare tutte le storie e le situazioni che vuoi tu.
I quattro amici che a turno hanno raccontato la loro storia, ora sono felici: la legna arde allegra, la molla è felice di essere utile, la piantina si sta riprendendo e la bambola riceve le tanto desiderate attenzioni e coccole dalla bimba.
Attorno al caminetto ora sono sedute alcune persone, sono felici in questo giorno di festa e parlano: ognuno sta raccontando agli altri una sua storia.
CAP. 4° LE STORIE DELLA MAMMA
Erano venute a trovare i nonni le loro tre nipotine, figlie dell’altro loro “ragazzo”. Tre bambine già grandicelle, molto diverse tra loro, ma tutte tre graziose e simpatiche.
Anche loro, come i cuginetti, si erano appassionate alle favole natalizie del nonno e così, dopo qualche decina di minuti, gli chiesero di leggere alcune delle sue storie senza attendere la sera di Natale.L’alberello non capiva ancora molto bene la sequenza del tempo nel mondo degli umani, ma dal suo angolo perorò appassionatamente la richiesta delle ragazze.
– Ho la voce un po’ roca oggi – si scusò il nonno. Ma sapevano tutti che gli piaceva farsi pregare un po’.
In quel momento apparve sulla soglia del salotto la mamma con un pacco di fogli…
– Allora faccio io! – disse sbalordendo tutti.
L’abete però sapeva che alla mamma piaceva scrivere; attraverso i vetri che dividevano la stanza dal terrazzo dove stava durante tutto il resto dell’anno, l’aveva vista spesso (quando in casa non c’era nessuno e regnava quindi un insolito silenzio) sedere sulla grande poltrona, accavallare le gambe, e scrivere anche per ore su di un blocco che teneva appoggiato sulle ginocchia. In estate poi, quando la finestra era aperta per fare entrare un po’ del fresco della sera, l’aveva chiaramente sentita leggere alcune cose a suo marito. Una volta, alcune poesiole, le aveva addirittura lette al telefono alla sua amica!
Aveva così appreso che la mamma scriveva su tutto e su tutti: parlava di sé stessa, della famiglia, degli amici, ma anche di cose strane e, a suo avviso, anche un po’ strampalate.
“Ricordo benissimo,” disse fra sé l’abete rammentando quei giorni, “ad un certo momento il nonno starnutì e la mamma, aperto il blocco, cercò un determinato foglio e lesse:
ETCIU`
Io penso che lo sternuto
che ti si ferma sulla punta del naso
e non vuol uscire,
sia la cosa più allegra
di questo mondo così serio.
Ti prude,
fa il pizzicorino,
fa arricciare il naso
e fare buffe smorfie.
La gente ti guarda e…
sorride.
Per uno sternuto
sei promosso ad attore comico!
Poi… esce fuori…
ti rende paonazzo,
ti imbarazza,
ti contorci
e fai gesti strani.
Per uno sternuto…
sei promosso a clown!
Poi dalla stanza dei ragazzi provennero le loro voci impegnate in un nuovo litigio:
– Sei insopportabile! – diceva uno.
– E tu un prepotente! – ribatteva l’altro.
– Se fossi più alto ti farei vedere io…
– Se avessi qualcosa di pesante in mano te lo tirerei addosso!
Fingendo di non udirli, con malcelata impassibilità, la mamma cercò un altro foglio e lesse:
SE
Se avessi una barca
mi cullerei assopita sul dorso delle onde;
se avessi un aliante
imiterei gli uccelli sulle ali del vento.
Se avessi un incubo
lo lascerei passare aspettando che finisca;
se avessi un sogno
lo vivrei felice sperando di concluderlo;
Se avessi energia
la sciuperei allegra correndo all’impazzata;
se avessi denaro
lo spenderei tutto vivendo di follie.
Se avessi volontà
mi alzerei da qui e mi darei da fare attorno;
se avessi capacità l’adopererei tutta
per scrivere cose meno sciocche di questa.
Ma quello che all’alberello era piaciuto molto, era ciò che aveva letto tempo prima con tono molto ironico alla sua amica. Aveva cominciato preannunciando:
– Ci sono delle parole che mi piacciono… altre no!
PAROLE
“Ci sono parole belle e parole brutte.” Diceva la buona fata a Cenerentola in un vecchio film, libero rifacimento dell’ineguagliabile favola.
Vero! A prescindere totalmente dal loro significato intrinseco, ci sono parole il cui suono può essere più o meno gradevole di altri. E così diremo che cioccolatino detto con la bocca chiusa a cuore è molto diverso e più simpatico di cioccolata detto a bocca spalancata. A me piacciono: trillo, lillà, Pechino; preferisco il tic al tac, e il din al don.
Se non si pensa al significato, allora si può aggiungere che mamma e papà non sono che l’inizio di un balbettio; precipitandosi, lapsus, conchiglia, scorribanda, sono labirinti, spirali, intoppi dove la voce si perde o inciampa; che farfalla, birilli e salmonella sembrano nomi di cose carine; che bolla, tetto, sbuffo sembrano allegri scoppiettii e sdrucciolo il nome di uno dei sette nani. Il mio nome invece, non mi piace. Mi suonano meglio Anna, Lucy, Mimì o… Adelia, che trovo adatto per un bel fiore giallo.
Le parole in fondo sono suoni che noi abbiamo imparato a dominare e applicato a oggetti persone o emozioni ecc. e uniamo assieme per formare frasi e definire così concetti e naturalmente comunicare fra noi. Una stessa parola o frase pronunciate da persone diverse possono cambiare di significato, così una poesia banale letta in fretta o in maniera apatica da una persona qualsiasi, sembra ancora più sciocca, decantata da un “fine dicitore”, può sembrare quasi arte. Proprio come la musica, no? Un motivo strimpellato su una pianola per bambini può essere solo noioso, suonato magistralmente su un pianoforte a coda, risultare una grande opera.
Ma tornando alle singole parole, che ne dite di: brillio, spicchio, pompon? Alcune mi sono solo più simpatiche scrivendo; mi sono accorta che ripeterei continuamente: proprio, tutto e…e, accentata o meno, ne metterei a iosa (anche questa mi piace) assieme a tutti gli avverbi che finiscono in –mente, e in genere le parole brevi accentate.
E ora prendiamo in considerazione alcune diversità di suono delle stesse parole nelle diversità di lingue che siamo andati a inventare tanto per comprenderci meno. Così, con un paio di esempi diremo che se in Guglielmo la lingua ti si incastra tra i denti, la sua versione inglese di William è notevolmente più scorrevole, e se in margherita inciampi su quell’orribile “ghe”, daisy è decisamente più carino.
Non pare anche a voi? Forse no, ma poco importa, anche su questo argomento l’interesse e il piacevole è molto soggettivo. Naturalmente… è… proprio… così… ma …e… se…
Comunque, grammatica, sintassi, analisi; vernacolo e aforismi! Io volevo divertirmi a scrivere non spremermi le meningi con questa difficile grammatica italiana. No, qui l’accento non ci va, qui invece, anche se dal suono non si capisce, sì! E poi chi se li ricorda? e il vocabolario pesa, mi sembra, circa un quintale. Ma non si può mandare tutto all’aria e scrivere un po’ come ci pare? No, eh? (e questo come va scritto?) Maiuscolo, minuscolo, con la parentesi o no? e il punto? e la virgola? Nomi, aggettivi, verbi e avverbi, accenti e accidenti vari.
Però la nostra lingua rispecchia l’animo degli italiani: variato irregolare imprevedibile e diverso in ogni suo caso; e anche variopinto allegro estroverso e forse un po’…
Quando anni fa ho cominciato a scrivere dei racconti, nascondevo i fogli perché nessuno li leggesse. Non era niente di segreto (la mia vita è “monotonia aperta”) niente di importante, eppure li nascondevo, e così bene che poi io stessa dovevo pensarci un po’ per ricordare dov’erano. Molto del malessere che provavo in quel tempo dipendeva dal fatto che “io ero” solo in funzione di altri, il mio “io” comprendeva solo questo, scrivere, dipingere, studiare qualcosa di nuovo, esulava dal mio vivere e se lo facevo, il renderlo pubblico mi metteva a disagio. Niente mi suggeriva di comportarmi così, ma mi sembrava che una moglie-madre-casalinga che scriveva dovesse far ridere. Contribuiva a tutto ciò il fatto che generalmente nei miei scritti mettevo a nudo i miei pensieri e la mia anima e io, di carattere tremendamente timido e introverso, nel mostrarli provavo quasi un senso di pudore.
A un certo punto venne fuori una frase che diceva circa così: “Mi sento come una scatola chiusa! Forse per questo spero che nessuno legga i miei scritti, sarebbe come alzare il coperchio, e temo si possa scoprire che dentro la scatola è vuota!” Risi di me stessa e a sera la feci leggere a mio marito che non rise, tutt’altro, mi incoraggiò a continuare.
Allora pensai di farlo divertendomi davvero; cominciai così a scrivere un po’ su tutto e su tutti: qualcosa di autobiografico, descrizioni della mia famiglia, della mia città; appunti di vita, brevi racconti, piccole poesie. Il tutto spesso molto sciocco, ma non aveva più nessuna importanza, erano diventati pensieri messi su carta, da rileggere e magari riordinare quando sarò vecchia e non avrò più niente da dire.”Una come te qualcosa da commentare ce l’avrà sempre!” ha dichiarato un giorno mio marito, e non ho capito se era un complimento alla mia facilità di parola o se ha voluto sottolineare come io sia una di quelle donne che trovano sempre e comunque un argomento per chiacchierarci su un’ora. Non ho osato indagare!
Mi sono così iscritta ad un corso di “scrittura creativa” e ho seriamente cercato di migliorare questo nostro italiano trascurato dai tempi della scuola, e per le mie velleità letterarie, non ho più inibizioni e posso ribattere a mio marito che se diventerò vecchia, e se davvero non avrò niente da dire, quel niente lo dirò in maniera appropriata.
Malgrado siano passati alcuni anni, a volte incontro ancora gli stessi problemi iniziali. Picasso diceva: “Se non ho idee e non so cosa dipingere, mi metto a disegnare”. Qualche grande scrittore avrà fatto altrettanto con foglio e penna; io che non valgo neanche un filino di loro… ora non so proprio più cosa scrivere. Uno di cui non ricordo il nome, ha dissertato su decine di pagine su ciò che gli veniva in mente osservando una sua unghia… L’unica cosa che noto è che sulle mie dovrei metterci lo smalto. Oggi ho la mente arida come la mia bocca e le caramelle alla menta con cui mi sto rimpinzando si sciolgono bene in bocca, ma non sciolgono il cervello. Con il gruppo di studio di scrittura abbiamo fatto l’esempio di ciò che si può dire anche solo su una matita; ma sto scrivendo con un pennarello che, bel lungi dall’avere il colore brillante e il caldo contatto del legno, e dal rievocare fantastici boschi di montagna e forzuti taglialegna, è di plastica, nera, fredda e monotona. Al massimo dello sforzo riesco a pensare all’operaio della fabbrica dove l’hanno fatto che conta le penne mettendole sulle loro scatole: un po’ come si vede nei vecchi film muti, o come succede con le pecore per addormentarsi: “Una penna, due penne, tre…” e poi ci si appisola. Ma il sorriso che accennava a spuntar fuori dal foglio si spegne subito al pensiero che oggi è tutto meccanizzato.
Chiudo il blocco, vado a mangiucchiare altre caramelle e rimando a dopo il tutto. Domani però proverò a comprarmi dei cioccolatini.
Comunque continuando puntigliosamente a scrivere qualsiasi sciocchezza mi viene in mente, ho ampliato il mio lessico e mi sono rinfrancata sia nella grammatica che nella sintassi. Pagina dopo pagina ho anche scoperto gli argomenti che mi sono più congeniali (cioè tutti!) sia in prosa che in poesia; cambio completamente genere (ma purtroppo non stile) a seconda dell’umore o semplicemente del tempo che ho a disposizione: storielle o raccontini con un filo conduttore logico e armonioso, se mi siedo tranquilla e penso di poter arrivare alla fine senza interruzioni (almeno questa è la speranza, in realtà è pura utopia!) o un insieme, spesso aggrovigliato, di frasi se scrivo il mio “pezzo” spezzettandolo nel tempo. Il problema si pone poi quando tento di riordinarle!
Oltretutto non scrivo quasi mai direttamente al computer, in genere preferisco carta e penna anche per poter appoggiarmi in un posto qualsiasi della casa (magari in piedi sopra la lavatrice o accanto ai fornelli); scrivo molto in fretta e, devo senz’altro ammetterlo, con una pessima calligrafia, minutissima e spigolosa, tanto che spesso non riesco io stessa a decifrarla. “Chi non capisce la sua scrittura è un asino di natura!” Raglio con finto sdegno e passo oltre.
Mi piacerebbe scrivere sempre cose divertenti e in modo allegro, ma ovviamente non sempre ci riesco, anche perché in genere lo faccio spontaneamente e senza pensarci su troppo, quasi sempre iniziando e non prevedendo assolutamente dove andrò a finire (o facendo l’esatto opposto!) e talvolta prevale il lato malinconico del mio pensiero, anche se cerco (spesso invano) di “condirlo” con toni ironici.
Tutto comunque mi dà la stessa soddisfazione, sia il racconto “casereccio” sia la storiella “stile fantascienza”. Ho scoperto però un vero piacere nel giocare con le “frasi preconfezionate” e le parole. Ogni scritto è ovviamente formato da un insieme di paragrafi, e questi non sono che un susseguirsi di parole, ma il prenderne certe singolarmente, mischiarle, buttarle all’aria e poi distenderle sul foglio nella più completa casualità, mi diverte proprio.
Comunque sarà senz’altro capitato anche a voi distendervi sul letto e non riuscire ad addormentarvi subito, e fissando il niente vuoto e incolore dell’insonnia, dare via libera ai pensieri più strampalati e assurdi che mai vi verrebbero in mente se foste pienamente coscienti della vostra volontà.
Ieri… o meglio, stanotte (dato che erano le ore cosiddette “piccole”) ho dissertato in silenzio, parlando a me stessa per chissà quanto tempo, sulla sibilante lettera “S”.
SCONFORTO!
Perché specificatamente su questa? Forse perché è l’iniziale del mio nome ma accidenti, chissà come, mi sono saltati in mente un sacco di aggettivi nomi e verbi che iniziano con la “S” con un senso brutto o negativo.
SGRADEVOLE!
Vocaboli come spavento, stupro, sparo, sputo; svogliatezza, sfinimento. Senilità. Solitudine. Scomparsa.
“S”. Una piccola serpe che sfregia la carta sfigurandone il superficiale lindore. A molte persone fanno schifo i serpenti.
STUPIDI!
A me no! Ho visto una volta un piccolo zoo ambulante contenente solo rettili provenienti da varie parti del mondo e sono rimasta piacevolmente stupefatta dalla bellezza di questi animali; gli smaglianti colori della pelle, le svariate sfumature, gli splendidi disegni simili a moderni mosaici, la loro rigorosa simmetria geometria; veri capolavori della natura. Perché dunque, se sono così belli, sono spesso presi a simbolo di cose brutte? Dalla tentazione di Satana, incarnato nelle sue spoglie, al povero Adamo, primo uomo, fino a noi, con schifose similitudini.
SPREGEVOLE!
Si sono coniate frasi entrate nel parlare comune sul tipo: “Essere viscido come un serpente” (anche se personalmente lo troverei più appropriato ad esempio per un pesce, che ti sguscia sempre dalle mani); o: “Strisciante come una serpe”. E le lumache? non strisciano forse anche loro, e per di più sulla loro bava “sicuramente” viscida? E poi le subdole allusioni alle squame e alla lingua biforcuta!
SQUALLIDO!
E come uno spiritello maligno una frase è andata sinistramente formandosi nella mia mente, squassando e sovraccaricando di tensione i miei nervi già scossi.
“Spietatamente scivolare su sostanze sdrucciolevoli sparse su squamose superfici e strapparsi da sgradevoli squilibri per poi sparire in spelonche sudice sublimando sogni squallidi.”
SGANGHERATO!
Con un briciolo di coscienza ancora desto ho cercato qualcosa di positivo, ma non mi è sovvenuto nient’altro che “semplicità” e “simpatia”.
SCONSOLANTE!
Ce ne saranno senza dubbio molti altri (sicuro!) ma ora che sono nel pieno possesso della mia mente (spero!) non sto a spremermi il cervello con queste scemenze e mi limito a scrivere ciò che ho pensato.
SERENITA’!
Sto però stranamente sognando pur con la mente sveglia e gli occhi spalancati.
STRAORDINARIO!
“Solare, sublime sfarfallante sensazione di speranzosi spiccioli di sapienza, sicuramente salvati da sempiterna stupidità.”
SI’!
Nota per il sign. correttore di sciocchi scritti
“Sottolinei o stracci, sempre con spietatezza e senza sorvolare, gli strafalcioni stravolti e senza senso.”
Saluto sorridendo con sincera simpatia
Stefania
Ora la mamma, seduta sul divano con il suo blocco in mano, disse alle nipoti:
– Ho scritto due cosucce pensando proprio a voi: una si intitola infatti “Le te sorelle” e l’altra “Vanità – E parlando guardava sorridendo di sottecchi la maggiore delle ragazzine che davanti allo specchio si aggiustava i capelli.
– Sì, sì, questa è proprio per lei – gridarono le due bambine più piccole.
Con aria di sufficienza e di superiorità la ragazza non le degnò nemmeno di un risposta ma… “Sono ancora delle mocciosette!” pensò tra sé, “cresceranno, e allora le prenderò in giro io! Adesso non capiscono niente!” E sedutasi accanto alla zia si apprestò ad ascoltare.
All’alberello era piaciuta la disputa fra le ragazzine; si divertiva sempre a sentire bisticciare, e poi faceva paragoni sui loro modi e su quelli dei loro cuginetti. Gli argomenti delle femminucce erano senz’altro più frivoli, ma non gli sarebbe dispiaciuto se avessero continuato ancora un po’… ma la mamma aveva incominciato…
LE TRE SORELLE
Crema, Cremina e Cremetta erano tre sorelle. Nate a poca distanza l’una dall’altra erano alte uguali e avevano lo stesso profilo elegante e snello; si assomigliavano talmente che era impossibile non notare la loro stretta parentela. Pochi infatti erano gli elementi che le distinguevano cosicché, per praticità, decisero di adottare diversi colori per il loro “look”.
Per Crema, la prima nata, fu scelto il color rosa, il più tenue, quello dei confetti, dei fiori di pesco dei quali essa stessa ricordava il profumo.
Per Cremina, l’azzurro; quello del cielo terso, dei nontiscordardimé, del mantello della Madonna, delle statuine del Presepio (era nata infatti proprio nel periodo natalizio).
Poi venne Cremetta. Si discusse a lungo: rosso come l’amore? (ricordava troppo il colore del sangue); giallo come i limoni più succosi? (era il colore della gelosia!).
L’incertezza era molta, i pareri sempre più discordi; cominciarono perfino a trascendere con le parole e poi con i fatti, e in tanta confusione nessuno pensò più a Cremetta che, solitaria, quasi abbandonata a sé stessa, cominciò la sua vita senza colori accativanti: completamente bianca!
Ma come succede nelle favole, ciò che nessuno aveva previsto si avverrò nella realtà, e ora era lì, sullo scaffale del grande magazzino.
Allineate in bell’ordine fra tanti altri flaconi e scatolette a loro simili, le tre sorelle facevano bella mostra di loro stesse: Crema la “Fantastica”, per gli occhi; Cremina la “Meravigliosa”, per il viso; e Cremetta, senza diciture mirabolanti, senza colori attraenti, quella che per la sua semplicità e purezza era adatta in ogni occasione.
E fu proprio lei quella che attrasse lo sguardo e la preferenza della gente. Quel suo candore spiccava fra tutti come una sposa nel suo abito bianco.
Fu un successone commerciale! Tutti si attribuirono il merito di quella idea geniale continuando l’interminato litigio e non ammettendo mai e poi mai che fu solo una dimenticanza.
VANITA`!
Nella grande sala di un grande palazzo in una grande città, un giorno attaccarono alla parete un enorme specchio. “Come sono bello! Come sono elegante, ricco e splendente!” Si diceva tra sé più volte al giorno lo specchio.
Era stato posto magistralmente sulla parete di fondo in modo che riflettesse l’intera lunghezza dell’ambiente e tutti i mobili lussuosi, i quadri d’autore, i ricchi soprammobili, arazzi, e oggetti vari che lo adornavano. Tutti scelti con grande gusto e classe da gente che di ciò ovviamente se ne intendeva molto.
Lo specchio così, vedendo in sé stesso quelle cose bellissime, se ne attribuiva le stesse qualità ripetendosi: “Come sono bello! Quale ricchezza in me! e non solo all’interno! La mia cornice dorata è certo stata intagliata dagli artigiani più abili. La mia qualità è senz’altro fra le superiori esistenti. La stessa cura con cui mi puliscono, lustrano e badano perché sia sempre splendente dimostra chiaramente il mio valore. Sono veramente un’opera d’arte! Sono meraviglioso!” E così era infatti, come tutto il resto del sontuoso palazzo.
Quando alla sera si accendevano gli enormi lampadari in cristallo, egli ne rifletteva alla perfezione la luce e i riflessi iridescenti delle loro mille sfaccettature; era come se racchiudessero in loro piccole gocce d’arcobaleno e lo specchio non faceva che raddoppiarne la bellezza.
Spesso lì davano grandi feste. Gente elegantissima e adorna dei più pregiati gioielli andavano e venivano lungo le sale del palazzo, soffermandosi spesso per osservare la loro ostentata ricchezza nel rettangolo sfavillante del grande specchio. “Come sono bello!” ripeteva questi sempre più orgoglioso di sé. “Oggi più del solito! Quanti gioielli, che abiti stupendi, che gente eccezionale in me!” attribuendosi ancora una volta tutto ciò che rifletteva. “Cosa può valere di più al mondo? quali ricchezze possono esistere superiori a tutto ciò? E se tanto bello è l’esterno, così deve essere anche l’interno! La mia anima non può che essere all’altezza di tutto questo. I miei valori morali devono essere fra i più nobili. Meraviglioso!” pensava sbagliando ancora una volta nel giudicare sia sé stesso che la gente che in quelle sale si incontravano.
Venne infatti il giorno in cui capitò una cosa che lo stravolse sia per la cocente delusione che per la rabbia, tanto forti che gli offuscarono la superficie e gli ori della cornice. Erano presenti tante persone, tute molto importanti per l’economia e la politica del Paese, del quale la grande città era la capitale; in una stanza attigua, arredata con mobili costosi ma in modo spartano, assieme ad alti funzionari dell’esercito, essi avevano appena deciso di formulare un’ufficiale dichiarazione di guerra a un Paese confinante e ora si trovavano nella grande sala, chi con un bicchiere di liquore in mano, chi fumando nervosamente un’ennesima sigaretta commentando la discussione e le decisioni prese pochi minuti prima, ignari di essere ascoltati e capiti dallo specchio alle loro spalle. “Guerra? So cos’è la guerra! non può succedere questo! ora! Fra poco cominceranno le azioni offensive, le sparatorie, i cannoneggiamenti; passeranno gli aerei sopra di me e andranno a bombardare il territorio nemico. Passeranno i carri armati per andare a conquistarlo, i soldati! Le perdite di cui stanno così tranquillamente preventivando l’entità sono già per sé stesse enormi, ma che succederà se sarà il nemico a vincere? se saranno i loro aerei a sganciare le bombe su di noi? Sono ancora bello, è bella la gente che c’è qui, ma è solo la superficie; io sono un oggetto, loro sono persone, e l’anima è tutt’altra cosa. Ora l’ho capito! specchiata in me è stata solo la loro vanità!”
Finalmente consapevole della verità, ancora incredulo per le notizie terribili che aveva appreso e stupito che le luci potessero ancora brillare, si chiuse in sé stesso. Fu come se si tappasse gli occhi e le orecchie per non sentire e soprattutto per non pensare a ciò che stava accadendo. Ma non fu possibile non udire il rombo degli aerei, lo scoppio delle bombe, il crepitio delle mitragliatrici. Era come se l’aria stessa tremasse dalla paura.
Poi, in un giorno incredibilmente assolato, il grande palazzo fu colpito e le macerie rovinarono le une sulle altre in una ecatombe di marmi, detriti irriconoscibili e polvere. Lo specchio andò in frantumi nel momento stesso dello scoppio, prima ancora che tutto crollasse, e alcuni pezzi finirono sotto una grossa trave e naturalmente lì rimasero per molto e molto tempo.
Un giorno, molto tempo dopo, uno di questi cocci, un po’ più grande, un po’ meno malconcio, venne trovato da una ragazza che rovistava fra le macerie alla ricerca di qualcosa di ancora utilizzabile. Essa lo prese, lo ripulì un po’, lo mise in una sacca che portava al fianco, e dopo aver cercato ancora un poco si incamminò verso una destinazione che il piccolo pezzo di specchio non poteva individuare. Altre cose vennero introdotte nell’ampia sacca; fu sballottato, sconquassato, qualche pezzetto ancora si frantumò, poi…
Quello che si rispecchiava era il visino di una ragazza molto giovane, poco più di una bambina; era sporco e incorniciato da capelli incolti e arruffati. “Vanità! Vanità!”
La ragazza si guardò; il visino fece una smorfia birichina, le boccacce, storse gli occhi; con un dito spinse in su la punta del nasetto abbronzato. “Vanità!”
La ragazza continuò: poggiò lo specchio in modo da poter continuare a vedersi, e tirò gli angoli degli occhi, buttò i capelli di lato, poi davanti, spettinandoli più che mai.
“Vanità!” ripeteva il frammento di specchio; ma sempre più piano, meno convinto.
Qualcuno parlò, una vocina di bimbo, la ragazza rise e tornò a rimirarsi continuando a fare smorfie buffe. Ora ridevano entrambi di gusto.
Poi il bambino trovò un fiore, giallo, piccolo piccolo; la ragazza se lo mise fra i riccioli spettinati e sorrise alla sua immagine.
“Vanità!” ripeté lo specchio. Ma fu come un sospiro lieve, e dopo tanto, tanto tempo, e tanta tristezza, si stupì nel ritrovarsi a ricambiare volentieri quel sorriso.
E il girno di Natale passò come sempre fra chiacchiere canti e storie in serenità e allegria.
CAP 6° UN ANNO ANCORA
Ripassò un anno ancora; tornò un altro inverno. Riportarono nuovamente l’abete in salotto, lo addobbarono e il resto del giorno passò tranquillamente.
Ma nel pomeriggio del giorno successivo il trillo improvviso del telefono fece sobbalzare l’albero, tanto che temette che le persone lì attorno avessero notato il tremolare delle palline. Ma il nonno era comodamente sprofondato nella sua poltrona preferita immerso nella lettura del giornale, il papà non era ancora rientrato, mamma e nonna erano in cucina, mentre i due ragazzini erano troppo impegnati nel loro ennesimo litigio della giornata.
Al secondo squillo il più piccolo, che quasi con un salto si era precipitato al telefono, aveva già il telefono in mano:
– Pronto? Chi parla? – disse con una vocina querula tutt’altro che vera. – E’ per te! – e porse il telefono al fratello maggiore con un gesto e una smorfia canzonatori che erano tutto un programma.
– E’ per lui! – ripeté per sottolineare ancora di più la cosa al nonno che lo stava guardando. – E’ la sua “nuova fiamma”! – disse questa volta con la voce più bassa…. ma non tanto da non essere udito da tutti.
Il fratello, che aveva già terminato la conversazione, partì subito al contrattacco:
– Taci! Chiacchierone sciocco e bugiardo! – inveì contro il più piccolo tutto rosso in faccia, non si sa bene se per la rabia o per la leggera vergogna per essere stato smascherato del suo piccolo segreto. Avrebbe voluto dire al fratello parole ben più grosse e appropriate, ma col nonno presente…
– Non sono bugiardo! – rintuzzò quell’altro con la voce ora tornata ai suoi normali toni e volumi altissimi. – So anche come si chiama! – continuò.
– Non è vero! e tu sei uno spione sciocco e bugiardo! – urlò di rimando il fratello; e anche l’albero ormai sapeva benissimo fino a quanto sarebbero stati capaci di proseguire quei due se non fosse intervenuto qualcuno degli adulti a dividerli.
– Basta! – Entrò infatti nel soggiorno la mamma ancora con lo strofinaccio in mano.
– E’ uno spione!
– E’ un bugiardo! – gridarono i ragazzini all’unisono.
– Basta! e lo dico a tutti e due per l’ultima volta! ripeté la mamma, e aveva decisamente l’aria più battagliera di loro due messi assieme. E un volta tanto dello stesso parere, i due bambini pensarono fosse certamente meglio ubbidire e si acquetarono. “Ma sarà certo una cosa momentanea”, pensò l’abete con un mezzo sorriso.
Erano infatti le vacanze natalizie e i ragazzini non erano quindi andati a scuola. Quel giorno poi, era scesa ininterrotta una pioggia scrosciante e non erano usciti che per poco tempo ad “aiutare” la mamma per le compere. Annoiandosi chiusi in casa, incuranti perfino dell’arrivo delle cugine e degli zii, avevano dato vita ad un interminabile bisticcio “condito” con piccoli dispetti e boccacce (e anche qualche spintarella non proprio leggere quando nessuno era presente, l’alberello li aveva visti bene!), portando quasi all’esasperazione tutti i componenti della famiglia. Quanto a lui, la cosa lo divertiva proprio!
Non erano passati che pochi minuti infatti, che il più piccolo si sedette accanto al nonno e, con aria molto cospiratrice, gli bisbigliò all’orecchio con quella puntigliosa pedanteria con un briciolo di infantile cattiveria che i bambini sanno sfoggiare.
– Ha la “fidanzata”! non lo vuole ammettere… ma io lo so!
Anche l’alberello lo sapeva, ma non lo andava certo a raccontare in giro! “No! così non si fa!” pensò infatti. E fu molto soddisfatto nell’apprendere che anche il nonno era dello stesso parere.
– Sono cose sue, se non lo vuole far sapere non devi certo essere tu a dirlo. E poi che male c’è ad avere una fidanzatina?
Il ragazzino più grande, già pronto a saltare al collo del fratellino, sentendosi difeso e appoggiato dal nonno si azzittì subito e sedette con aria di trionfo sul divano.
Anche il piccolino tacque, ma si leggeva chiaramente in faccia che, per niente vinto, stava solo pensando cos’altro escogitare per punzecchiare il fratello.
Il nonno e l’albero, che la sapevano lunga, si resero naturalmente conto di tutto ciò; il vecchio infatti, riposto il giornale, presa in mano la pipa (anche se tutti sapevano che non l’avrebbe accesa) assunse quell’atteggiamento di chi sta per raccontare qualcosa.
Questa volta il piccolo abete fu proprio certo che tutti si fossero accorti del salto che avevano fatto le palline e i ninnoli che portava appeso ai rametti. “Il nonno racconta ancora le favole!” si disse. “Meraviglioso! meraviglioso…” non accorgendosi per l’emozione, che stava scioccamente continuando a ripetere lo stesso aggettivo. Poi si scosse e si azzittì, perché il nonno aveva incominciato a parlare:
– Gli amori giovanili possono essere i più belli, e anche se non dovessero durare a lungo, resterebbero però per molto, molto tempo, fra i ricordi più piacevoli. So che conoscete la storia di Giulietta e Romeo, perché avete visto alla televisione il film che ne hanno tratto
“No! Io no!” ansimò l’alberello, quasi disperato per aver perso una storia senz’altro bellissima se ne avevano fatto addirittura un film. “Io ero fuori sul terrazzo! non lo ricordate?”
– E l’anno scorso vi ho letto la favola dell’amore fra la piccola ballerina di carta e il soldatino di piombo
“Sì! questa l’ho sentita!” pensò l’alberello consolandosi un po’ per aver perso solo la metà della faccenda.
– Ho scritto anch’io qualcosa in proposito – continuò con aria indifferente il nonno, fingendo di non vedere l’espressione stupita che assunsero tutti. Albero compreso!
“Questo proprio non lo sapevo!!!” si disse infatti. “Ma già, io sono là fuori, e mi sta bene, respiro meglio, ma intuisco solo ciò che avviene qui in salotto, e il nonno si chiude, spesso per ore, nella sua stanza, ed ecco cosa ci fa!” E questa volta era davvero corrucciato e anche, per la verità, un pochettino stizzito per non essere partecipe appieno a tutti gli avvenimenti di quella che considerava la sua famiglia.
Alquanto imbronciato (essendo infatti ancora molto giovane si comportava proprio come i due bambini) quasi quasi non avrebbe ascoltato le storie scritte dal nonno. Ma questi, che nel frattempo era uscito dalla stanza, ne stava ora rientrando con dei fogli in mano e l’alberello, subitaneamente dimentico di tutti i suoi propositi, si mise in ascolto con tutti i suoi sensi eccitati e protesi al massimo.
E il nonno cominciò:
GIOVANI AMORI
C’era una volta un grande poeta che descrisse il tragico amore contrastato dalle famiglie di due giovani della nobiltà veronese. E’ naturalmente l’immortale storia di Giulietta e Romeo, ma quante volte, in tempi e in luoghi diversi, la vicenda si è ripetuta nella realtà, fortunatamente non sempre con lo stesso tragico finale.
E’ la stessa storia quella che si ripete ai nostri giorni, in una città qualsiasi, con la stesse modalità della tragedia Shakespeariana: due giovani cuori battono con reciproca tenerezza, e le rispettive famiglie si odiano e si contrastano.
July è minuta, si muove con grazia, i capelli biondi le arrivano a ricciolini fino alle spalle ed è molto timida. Ama stare seduta alla finestra a guardare i ragazzini che giocano in giardino, e così la mamma la chiama “la mia Giulietta”.
A Romeo hanno dato il nome del nonno paterno; a lui non piace così gli amici lo chiamano Rom. Rom è un “duro”, ma si addolcisce subito allo sguardo di July.
Abitano sullo stesso condominio, e per divergenze di idee su lavori comuni le loro famiglie hanno litigato violentemente e naturalmente nessuno di loro si parla più.
Qualche volta si incrociano per le scale, July abbassa gli occhi, si tocca la gonna; Rom si gira con aria indifferente, cerca gli amici.
Ma frequentano la stessa scuola, la stessa classe, ogni giorno si vedono e siedono vicini sullo stesso banco. A volte le loro mani si toccano nello scambiarsi qualche oggetto, allora i loro sguardi si incrociano e si sorridono dolcemente.
Non possono i loro genitori proibire di parlarsi, lì, a scuola, non ci sono, e loro possono dimostrarsi a vicenda questo giovane, tenerissimo amore ancora per molto tempo: frequentano la prima elementare e davanti a loro hanno ancora tanti e tanti anni di studio.
Si sono scritte molte cose sull’amore “platonico”, – proseguì in nonno, e spiegò ai ragazzi il significato di questa strana parola – Dante parlò di Beatrice, Petrarca di Laura… ma ci sono storie molto più semplici, favole come quella del Soldatino e della Ballerina, della Sirenetta per il suo Principe… alcune sono a lieto fine, altre no! Tanti anni fa, per esempio, scrissero anche una canzone, parlava di un amore impossibile poiché era “sbocciato” fra una papavero alto alto e una paperina piccina piccina.
Erano entrati nella stanza anche la mamma, la nonna e il papà che da poco era rientrato.
– Sì – disse questi sorridendo – ed è la prima canzone che ho imparato!
– Cantala, cantala – gridarono in coro i ragazzini in coro.
“Cantala” chiese l’abete tremando tutto per l’eccitazione.
E il papà, non aspettando altro, finse di cedere alle insistenze e cominciò a cantare con voce tonante una canzoncina in realtà graziosa e dolce, fatta senz’altro per tutt’altri toni, e soprattutto stonando in maniera davvero atroce, con grande spasso di tutti.
Quando trionfante e un po’ paonazzo finì, stavano tutti ridendo a crepapelle, pure lui! E poi, stupendo per la seconda volta tutta quella entusiasta platea…
– So anch’io una storia su di un piccolo grande amore. – E senza aspettare oltre incominciò:
L’ABETE E LA STELLINA
C’era una volta, in un posto lontano, bellissimo, fra i monti, un piccolo abete; era piccolino, ma ci metteva tutto il suo impegno per crescere alto e forte.
Nelle serene notti estive, si potevano vedere in alto migliaia di stelle; ma d’inverno, quando anche le nuvole lasciavano il freddo dei monti per recarsi sulla pianura e il cielo restava terso, c’era una piccolissima, lucentissima stellina che si accendeva un po’ prima e che brillava un po’ in disparte da tutte le altre.
Al piccolo abete, cresciuto fra tanti compagni, sembrava che quella solitudine fosse molto avvilente, così una notte si decise, prese coraggio, e alzando la vocina le rivolse la parola:
– Perché sei così sola? Sei triste? Gradiresti un po’ di compagnia? Sono solo un piccolo albero in mezzo alle tante cose splendide di questo posto, e tu sei così bella! Ma rispondimi, ti prego!
Abbassando lo sguardo sulla terra e individuato chi le stava parlando, la stellina restò un pochino perplessa, ma poi, intenerita da tanta dolcezza, ammiccò felice e rispose:
– Non so perché sono sola! Sono nata qui! – Facendo intendere che essendo una cosa naturale era scontato che, se così doveva essere, lei non poteva farci niente. – E` vero! è un pochetto triste! – e ammiccò ancora con un fare birichino, – non ho amici, ma sono sicura che ora ne ho trovato uno! – Si sorrisero entrambi e sbocciò subito un reciproco tenero amore.
Venne Natale, assieme ad altri, il piccolo abete fu portato in una città e senza più il suo piccolo compagno, la stellina si disperò!
Si uccise, nel modo in cui solo le stelle sanno fare, e cadde dal firmamento.
Ma Amore, quello che più di qualunque altra cosa sa fare i miracoli, prese la piccola stella, ne trasformò la materia in vetro luccicante e la pose come l’ornamento più bello sulla cima del piccolo abete.
E da allora, essi sanno che a ogni inverno, quando viene Natale, loro sono ancora insieme, uniti più che mai.
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