TG DELLE 13,30 1992-11-28
Non amo scrivere su argomenti tristi! nel mio piccolo mondo di carta e penna ho sempre preferito gli argomenti frivoli e disimpegnati per divertirmi qualche momento a scrivere e poi forse a rileggere. Ma talvolta mi è impossibile farlo e certe cose diventano mattoni che pesano sul cuore e sulla mente e non riesco a trasmetterle sul foglio.
Ieri ero seduta a pranzare con le mie figlie, come sempre la TV accesa e quasi dimenticata, ascoltata solo con un orecchio; qualche chiacchiera, specie durante la pubblicità, fra la presentazione di eccezionali automobili, costosissimi giochi futuristici e consigli su come investire al meglio il proprio capitale.
Poi trasmettono il telegiornale. Qualche articolo di politica, panni sporchi interni e mani pulite… ancora qualche inascoltata parola… poi un fragore. Di colpo tutte tre alziamo gli occhi al video. Era lo scoppio di una bomba, le immagini quelle della distruzione e della rovina quali ogni guerra porta con sé. SARAJEVO: il nome di quella che era una bella città, ora sinonimo di morte. Inquadrano i resti e le rovine di una battaglia, parlano della gente di un intero Paese, che non ha più cibo né mezzi per sopravvivere, costretta in parte a scappare lontano lasciando dietro sé non solo le macerie della propria casa e ogni loro avere, ma spesso i famigliari stessi e il cuore.
Trasmettevano l’intervista fatta in un campo profughi a una giovane madre con una bambina in braccio; la voce dell’interprete è atona ma il viso della donna parla per lei: “Ora ho solo la mia bambina” dice, “e gli abiti che abbiamo addosso. Siamo arrivate qui al sicuro dopo giorni di terrore. Mio marito e il mio fratello maggiore sono rimasti a combattere, un’altro fratello e il babbo sono morti sotto le granate”.
Ora è la volta di una donna anziana: “Mio figlio ha voluto che io partissi e mi mettessi in salvo… ma lui è rimasto lì. La nostra casa è stata distrutta. Sento dire che sono stata fortunata a essere arrivata in questo posto, ma non ho più niente, e da settimane non ho notizie di mio figlio. Preferivo restare e morire nella mia città”. E le sue lacrime sono più eloquenti di qualsiasi altra parola.
Mostravano gruppi di profughi, tutte donne, anziani e bambini.
Poi l’inquadratura cambia, ma non cambia il dolore. I visi sono neri, ma la fame, la sete, i patimenti sono uguali, anche se pronunciati in una lingua diversa. Corpi scheletrici, occhi che guardano spenti; SENEGAL, è solo un altro nome da aggiungere alla lista.
Abbiamo posato le forchette, l’acqua che abbiamo bevuto quasi a buttar giù il boccone rimasto in gola ha un sapore diverso. Non parliamo più, non sappiamo cosa dire.
NAZISKIN, svastiche e saluti a braccio teso. Il mondo è tornato ad impazzire? Scene di violenza razziale in Germania, Italia, replicano scene già viste a Los Angeles.
Ora un corpo disteso in una pozza di sangue; delitto di MAFIA.
Ma è proprio il nostro mondo?
Riprende la pubblicità, con volti sorridenti e prodotti splendidi: “Per Natale regalatevi un gioiello. Il cenone, con questo spumante sarà più buono. Questo orologio costa un patrimonio, ma è più di moda. Ogni donna deve avere la sua pelliccia!” Davvero? “I bambini di oggi giocano volentieri solo con questi computer!” E la fantasia? e le favole? Preconfezionate, messe in scatola e raccontate con voce meccanica.
Il pranzo è in qualche modo finito, la televisione viene spenta; fino a questa sera e al prossimo TG gli orrori visti vengono messi in disparte. Si riprende la routine quotidiana.
Ma non basta avere le lacrime agli occhi o dire “povera gente” Abbiamo trascritto il numero di un conto corrente, manderemo forse solo una goccia, ma se tutti lo facessero! Sono tante gocce che si uniscono quelle che formano il mare, e tante piccole gocce che assieme cadono dal cielo quelle che chiamiamo pioggia.
Se venisse un bel acquazzone a lavare via questa infamia, questa stupidità… e quella macchia di sangue per terra…
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